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SINGOLARITÀ

Tempo fa stavo guardando un documentario della BBC sulla fisica quantistica. Quando ad un ricercatore venne chiesto cosa fosse una singolarità, egli rispose, facendola molto semplice e comprensibile a tutti noi plebei, che è qualcosa a cui fondamentalmente non riesci a trovare una spiegazione.

Ecco: io trovo sia singolare come tutte le cose verso cui in principio ho nutrito una paura profonda, siano anche le stesse che una volta affrontate mi sono venute meglio. E strada facendo ho scoperto come in realtà non fossero nemmeno poi così spaventose come invece me le ero accuratamente dipinte. Da una parte la paura fottuta, dall’altra l’opportunità del successo: ed io nel mezzo, dilaniata come su uno di quegli strumenti di tortura medievale attraverso cui, con una personale interpretazione della passione cristiana, gli inquisitori allungavano e slogavano membra.

Ogni argomento importante necessita di una degna introduzione.
Degna, sì: ma anche concisa.

Veniamo al punto: correva l'anno 2009. Che io stessi commettendo qualcosa di cui mi sarei pentita a breve, mi fu chiaro già sul volo di rientro a Milano. Un neon visibile soltanto a me, lampeggiava a intermittenza stroboscopica in coda alla fusoliera, recitando una frase che lasciava pochi margini di interpretazione: “Fine della storia. E questa cagata è solo colpa tua.”
Un paio di giorni dopo il mio dissennato ritorno mi ero resa conto che avrei dovuto fare qualcosa che mi distraesse dalla consapevolezza di essermi cacciata con le mie stesse mani nell’ennesimo puttanaio. Camminavo lungo le vie del paesino dimenticato da Dio in cui abito: la ristrettezza e la ridondanza immutata di quelle strade note mi stava soffocando.

Passo dopo passo mi sentivo come le gomme del carrello dell’aereo: divorata dall'atterraggio.

Camminavo fissando l’asfalto. Già: l’asfalto. Nero. Di un profumo pungente che adoro. E di una durezza che ignori e che comprendi soltanto quando ti ci schianti rovinosamente, assecondando la dinamica della catapulta: perché qualche idiota ha buttato una fascetta di plastica porta volantini senza reciderla, e tu ci hai infilato dentro, solo Dio sa come, entrambi i piedi. Ma fortunatamente sei riuscita a girare la faccia, e denti e naso sono salvi: il resto del corpo un po' meno.

Sì, ma questa storia sarebbe accaduto soltanto un paio di anni dopo: un paio di anni dopo avere compreso che quelle strade erano troppo piccole, troppo brevi, troppo ristrette rispetto agli spazi che avevo percorso per un anno e mezzo. E che quindi, non potendo riavvolgere il nastro, avrei dovuto iniziare a percorrerle di corsa, consumando quel peccato mortale sulla corvina amalgama.

In realtà era da un pezzo che volevo iniziare a correre; ma c’erano sempre stati un paio di deterrenti che affondavano i denti nei miei fianchi.

Il primo fu il famigerato Test di Cooper: prima media. Come se avere undici anni in una classe di tredici maschi e quattro, dico QUATTRO, femmine non fosse una prova sufficientemente dura da affrontare ogni cazzo di giorno che Dio mandava in terra. Nella palestra della scuola arrancavo in mezzo ad anime dannate che correvano in cerchio: un girone infernale tappezzato al suolo di linoleum grigio. Ogni passo mi stava conducendo verso una morte prematura: lo sguardo del professore bonariamente rassegnato alla mia performance scarsissima, ed il mio ego seppellito vivo.

Il secondo deterrente fu il fumo. Sono una fumatrice: poco accanita nelle quantità, un po’ di più nei tempi. In un danzereccio senso di colpa, pensavo che mi sarebbe mancato il fiato e che non ce l'avrei mai fatta.

Mi sbagliavo ancora.

Soltanto con gli anni ho compreso come io possa essere stata una tale sega nel test di Cooper: sono bradicardica. Questo significa che riesco a dare il meglio di me quando gli altri stramazzano al suolo stecchiti: ossia sulle lunghe distanze. Quando da ragazzina guardavo Highlander e sentivo “Ne resterà uno solo” annuivo compiaciuta, pensando si riferisse a me.
Bradicardico significa che il cuore ha un range basso di pulsazioni per minuto: in regime di veglia il mio è quasi insignificante, tant'è che mi basta stare ferma una manciata di minuti per iniziare un processo di ibernazione naturale. Quando dormo probabilmente si ferma: è un po' come dormire con un cadavere che comunque ogni mattina è in grado di svegliarsi, alzarsi e prepararsi la colazione.
Il cuore dunque mi è stato alleato, e fatta salva la fatica insita nel gesto atletico, il fiato non mi è mancato.

Nell'ottobre del 2009 ho iniziato a correre, lasciando le esitazioni ai bagagli non reclamati di Linate.

Io e quella ci siamo innamorate subito: lei mi guardava ammiccante e io dovevo pur riversare da qualche altra parte l’amore irrisolto per Londra. Perché c’è sempre un’eccedenza da investire.

Disorientata e fuori luogo, avevo bisogno di attribuire un senso ed un margine di apparente regolarità ad ogni dannato giorno. Che io avessi qualche contratto a progetto utile solamente per pulirmi il culo, fossi alla ricerca di un lavoro o stessi dando vita ad uno dei miei figli, trovavo sempre il tempo per correre. 

Le prime sessioni duravano venti minuti e continuavo a sudare come un serial killer mezz’ora dopo avere fatto la doccia: un incarnato color barbabietola si fa strada tra i ricordi riflessi dallo specchio del bagno.
Dopo un anno di relazione arrivammo ad un’ora di frequentazione quotidiana, per cinque uscite a settimana: il battito cardiaco rientrava nel solito range di morte apparente nell'arco di un paio di minuti.
Quel gesto aveva spostato la mia attenzione sul cuore: dopo undici chilometri, posare la mano sulla gabbia toracica e sentirlo pulsare e spingere attraverso lo sterno con l'illusione tattile di poterlo toccare, era una sensazione impagabile. Feci sentire questa cosa anche ad Anna, una mia amica: ma a giudicare dall’espressione che le vidi in volto, non lo visse con il mio stesso entusiasmo.

La libertà della corsa creava lo spazio di cui avevo bisogno: potevo correre ovunque e quando volevo. Da sola o con qualcuno (buona la prima). Non dovevo aspettare che una palestra aprisse o che il tapis roulant fosse libero: dovevo solo indossare quel paio di scarpe giallo fosforescenti che stavano lì in silenzio a guardarmi, pronte per essere sguinzagliate.
Mi rendevo conto che in un modo o nell’altro le giornate mi scivolavano tra le dita come un cubetto di ghiaccio: un efficente criceto correva nella ruotina. Ma quell'affare di plastica a me non piaceva tanto. Magari non era di plastica. Magari era una marmellata di ferro e clacson. Oppure un proiettile di metallo targato Trenord, gelido d'inverno e incandescente d'estate. Oppure era di vetro macchiato di un impasto di pioggia e residui di PM10, che rifletteva la morgana di un MAC da 27 pollici per otto ore al giorno.
Ma per quanto variegato potesse essere il genere di confezionamento, il senso di costrizione era immutabile: avevo bisogno di un antidoto. Così decisi di razzolare con regolarità, visto che era ciò di cui avevo bisogno. E ciò che vidi e scoprii fu qualcosa di strabiliante.

Ho visto foglie rosse come il sangue e gialle come un dolce mango maturo, sfiorarmi e posarsi al suolo delicate come farfalle: le ho viste dipingere l’asfalto in strati di colore vibrante, distillato essenziale d'estate. Ho sentito gocce di pioggia gelata trafiggermi la pelle del volto con insolenza: una cascata di punte di spillo cristallizzate da un’aria tanto tagliente da fendere la carne come un coltello affilato. Ho solcato deserte notti cristalline, così terse da potere scorgere sulle montagne all'orizzonte il sapore legnoso e affumicato della neve: notti in cui l’asfalto si trasformava in un oceano nero dalle note di cuoio, su cui sono scivolata liquida nella ritmica eco dei miei passi e del mio respiro. Ho brillato riflessa nelle decorazioni natalizie che vestono di colore la densa oscurità invernale. Mi sono lasciata avvolgere e confondere dalla nebbia, in un gioco a nascondino dove peccati e peccatori impenitenti si inseguono perché non possono fare a meno l’uno dell’altro. Ho visto lune grandi come ostie sollevarsi materne all'orizzonte. Ho visto il sole ritornare, le giornate allungarsi una manciata di minuti al giorno da riempirne una cesta, gli alberi rifiorire sfidando con caparbietà tutto il male che stiamo facendo alla Terra. Ho corso sotto squarci di cielo indaco intrisi di profumi primaverili: ho respirato cromie che sono scivolate nel sangue e hanno sublimato attraverso la pelle. Ho affrontato ondate di calore che mi facevano sentire il battito del cuore fino al cuoio capelluto: ho sentito le mani pungere dalla forza prorompente con cui il sangue scorreva, quasi volesse infrangere i limiti del mio corpo.

Ho trovato il contatto con la natura, in una coreografia urbana della quale non posso fare a meno. Mi sono messa alla prova nelle estremità delle condizioni atmosferiche perché volevo farne parte: volevo sentire cosa si provasse ad essere esposti, a non essere al riparo. Volevo vedere se l'insicurezza fosse realmente così spaventosa. Volevo fare parte del tutto.
L'asfalto è diventato il mio palcoscenico. Ho corso attraverso lamate di sole cocente che scioglievano suole, abbassavano spaventosamente la pressione sanguigna e amplificavano la potenza del cuore: sentivo fiotti di sangue esplodere come bolle giganti ad ogni pulsazione. Ho corso nel vento e contro vento. Ho cercato l'equilibrio su un manto ghiacciato o innevato, mettendo alla prova i miei riflessi e bilanciando ogni movimento. Ho sentito gocce calde grosse come monete infrangersi piatte e morbide sulla pelle. Ho sottovalutato un cielo verdastro che si è rivelato epifania di grandine: un muro bianco di biglie di ghiaccio che colpiscono feroci le ossa come fiondate (è stato lì che sono riuscita a dare un volto al concetto di lapidazione). Ho corso tra scrosci di pioggia torrenziale, invischiata in fredde pozzanghere nerastre che rallentavano il mio passo, disperdendo calore corporeo che si appiccicava evanescente agli abiti zuppi mentre il cuore dettava il ritmo.

Ho inciampato nella vita di molte altre persone: sono diventata “quella che corre” (se dovessi venire a mancare mettetelo sul necrologio, in corsivo, sotto a nome e cognome, grazie). Ho incontrato le abitudini delle persone e scorci delle loro vite, che per una frazione di minuto, si sono incrociati con la mia. Ho scambiato sorrisi e saluti in appuntamenti quotidiani casuali. E quando ho cambiato lavori ed orari, le persone mi hanno chiesto dove fossi finita dato che non mi incontravano più.

Sono scivolata in universi paralleli, impegnata a sudare tutto quello che nel tempo avrebbe potuto avvelenarmi: frustrazioni, limiti e dolore si sono incollati alla pelle con un odore acre e pungente. Ho sentito quel tempo che durante il resto della giornata mi sfuggiva, contrarsi e diventare elastico, perdere senso per acquisire una nuova valenza. Sono scivolata in una trance che mi ha fatto dimenticare quanti chilometri avessi percorso.
Ho ascoltato un corpo che ha iniziato a parlare attraverso il gesto atletico che stavo compiendo: ho dimenticato l'alcool di cui tutto sommato non ero nemmeno così amica intima, ho compreso come l'energia del cibo potesse essere il mio carburante, come un adeguato riposo fosse fondamentale per sentire meno la fatica. Ho sentito i muscoli contrarsi e scattare e i polmoni espandersi.

L'allenamento è mutevole: non ho mai vissuto due sessioni in maniera identica. Non ho mai corso due volte nello stesso modo. Certe volte ho pensato che non ce l'avrei fatta perché ero troppo stanca, perché faceva troppo caldo o troppo freddo, perché diluviava: credevo sarei stramazzata al suolo appena varcato il cancelletto che dà sulla strada, in un remake contemporaneo del Test di Cooper. Invece ho corso come se non avessi avuto un corpo fisico. 
Altre volte ho pensato che ero pronta per scannare come un levriero, lasciando la scia di fuoco sull'asfalto, e poi ho trascorso un'ora pregando perché Dio fosse misericordioso e mi facesse arrivare viva alla fine. Perché la resa non è contemplata: posso pensare di finire i giri che mi mancano in ginocchio, trascinandomi sui gomiti su per le scale fino alla porta di casa. Ma non posso fermarmi: non posso arrendermi. E’ una questione di autostima e testardaggine.
La corsa è un viaggio con se stessi: ti pone davanti ai tuoi limiti e tu cerchi di superarli. O almeno di vederli.

Londra è rimasta là, a più di mille chilometri di distanza: però forse la sua magia si perpetua a dispetto di tempo e spazio. La sua mancanza si è trasformata in presenza: ricordandomi attraverso la corsa tutto quello che mi ha insegnato e quello in cui mi ha trasformata.
La corsa è stata un’ancora di salvezza. Foriera di un messaggio nascosto, come i numeri: con la differenza che qui non è stato difficile intenderlo. Stremante e primordiale. Credo sia qui che risieda la sua bellezza sottile: nell'eleganza del gesto intriso di denso umore umano. Riporta a quel lacerante respiro primordiale, in cui cercavamo d'istinto la strada per sopravvivere. In cui per un attimo abbiamo temuto di morire nel momento stesso in cui siamo venuti al mondo.
Salvo scoprire che nell'apertura non c'era alcuna lacerazione, ma soltanto pienezza.

Non solo.
La corsa è anche riuscita a mettere a tacere quella voce così arrogante e indisponente, che per anni mi ha ripetuto quanto non fossi mai abbastanza magra, quanto non fossi mai "abbastanza" in generale, quanto facessi schifo e che avrei dovuto essere sufficientemente forte da smetterla di alimentarmi.
La stessa voce che quando mi ribellavo e mangiavo un gelato, una manciata di minuti più tardi me lo faceva vomitare ancora freddo.

La corsa mi ha insegnato che il cibo è fonte di energia.
Che io sono ciò che mi nutre.
E che se voglio correre, devo nutrirmi.


Non ho ancora compreso quella voce dove sia finita.
Forse si è consumata e spenta sull'asfalto.
Mentre lei moriva lentamente, ad ogni cazzo di chilometro che a me dava i brividi, io risorgevo.

XXX
MAdd ❤