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L'ANNO DEL SALTO NEL BUIO (e non sono ancora atterrata)

Correva l’anno 2002: esattamente dodici anni fa.


È già il secondo post di fila in cui faccio riferimento ai numeri: mi affascinano e mi stordiscono almeno quanto il Tanqueray. 

Quello che mi stupisce dei numeri, è la loro ricorrenza in determinati periodi dell’esistenza di ciascuno di noi. Credo abbiano una sorta di significato nascosto: che ovviamente non ho ancora compreso. La verità è che ogni pretesto è buono per cercare di dare un senso alla mia presenza su questa Terra: vale tutto, anche i numeri. 

Da qualche anno a questa parte ho iniziato ad avere grossissimi problemi con le cifre: anche le più semplici. Dei banalissimi calcoli diventano un arcano inaccessibile: improvvisamente si alza una nebbia fitta e io mi ritrovo appesa nel bel mezzo di un cazzo di niente, incapace di pensare. Se mi viene richiesto di scrivere delle cifre, sistematicamente le inverto. Fatico a contare i piani di palazzi molto alti. A volte mi trovo a fissare le monete da dare alla cassiera manco fossero delle rune.

Comunque una spiegazione me la sono data: credo che questa "discalculia di ritorno", chiamiamola così, sia il risultato dello sviluppo di aree cerebrali legate al linguaggio ed alle immagini. Le sinapsi delle funzioni matematiche sono state lasciate morire con una crudeltà efferata e si stanno semplicemente vendicando.

Okay.

Torniamo al 1996: fine delle superiori. Avevo 18 anni, un diploma di Grafica Editoriale e Pubblicitaria, e forse le idee più chiare di quanto non le abbia adesso. Non sapevo cosa studiare all’università: volevo guadagnare, non volevo sprecare tempo e tanto meno i soldi dei miei genitori. Così mi sono cercata un lavoro.

Cinque anni dopo, nel 2002, avevo 25 anni e stavo lavorando in una società informatica come segretaria di direzione. Ero atterrata lì nel 1998, dopo un paio d’anni di lavoro in un laboratorio analisi, rispondendo ad un annuncio in cui cercavano una centralinista che conoscesse la lingua inglese e sapesse usare il pc. Semplice.

Il mio capo, riconoscendo le mie capacità, ebbe l’intelligenza di darmi un’opportunità di crescita professionale: e fu così che divenni la sua assistente. Semplice, ancora.

Viaggiavo e imparavo cose nuove che mi sarebbero state utili sia nella vita che nei lavori che poi avrei svolto nel futuro. Lo stipendio era ottimo: ecco, questa è una cosa che non ho più avuto modo di dire nuovamente da quando ho iniziato a lavorare come creativa. Questo invece è complicato.

Nell’inverno del 2001 frequentai un corso serale di aggiornamento in Grafica: non ricordo esattamente perché lo feci. Ma ricordo molto chiaramente che le cose si misero subito molto male per due ragioni: la prima è che adoravo quello che stavo imparando, al punto che molto impunemente mi esercitavo di nascosto anche durante le ore lavorative. La seconda è che ricordo ancora nettamente lo sguardo strabiliato e incredulo del mio docente, e le parole che pronunciò osservando la realizzazione del progetto che ci aveva affidato per casa: “E’ perfetto! Tu sei veramente una grafica!”

Lo ripeté due volte, con gli occhi incollati a quella brochure. 

Manuel era un docente fantastico: ma era anche severo come Torquemada ed estremamente esigente. Il minimo difetto nella realizzazione visiva di un progetto, era motivo di crocefissione e flagellazione. Per questo la sua affermazione mi colpì così tanto.

Il corso terminò verso primavera inoltrata: trascorsi i mesi successivi ponendo ascolto a qualcosa che si stava muovendo nelle pliche più remote delle mie viscere. Era come se una creatura molto grossa si stesse risvegliando dopo un letargo, muovendosi lento tra le anse e mostrando di volta in volta piccoli lembi di sé, che emergevano in brevi scorci come lucida pelle di serpente. Quell’essere aveva una saggezza profonda e sapeva essere giunto il momento di manifestarsi.

Chiamo questi periodi di transizione “gestazione”. All’inizio è solo una sensazione, che con il giusto tempo si trasforma in una decisione e poi in un’azione che ovviamente il più delle volte mi incasina l’esistenza.

Nel frattempo, al lavoro, per la prima volta in vita mia sperimentai la Sindrome del Prigioniero: era da un po’ che non mi venivano affidati nuovi compiti, la mole di lavoro non era più così intensa e stavo facendo le stesse cose da oramai troppi mesi. Chiesi al mio capo di darmi cose nuove da fare, in un’ottica di avanzamento di carriera. Lui mi rispose: “Marta non puoi avanzare ulteriormente. Questo è il massimo che tu possa raggiungere in questa azienda ed anche in questo ruolo. Mi spiace.”

Smisi di respirare.
Lo guardai con due occhi grandi come due palle da bowling: avevo appena udito la mia condanna a morte.

La creatura che ospitavo in me, aveva iniziato a muoversi sempre con maggiore insistenza. E aveva anche iniziato a parlare. Non era linguisticamente loquace: preferiva esprimersi tramite sensazioni. Diceva sempre e solo quattro parole: “Adesso o mai più.”

Mi ci volle un po’: dovetti porre ascolto a quella sensazione che di ora in ora si faceva sempre più intensa e sempre più presente, come le contrazioni di un travaglio. Dovetti valutare ogni variabile per cercare di prendere la decisione giusta. Vagliai sommariamente tutti i possibili pericoli: ce ne erano parecchi, ed in futuro si sarebbero presentati tutti, uno ad uno. Ma fortunatamente in quel momento non ne vidi nemmeno mezzo: è un po’ come avere dei figli. Se sai cosa ti aspetta, lasci stare.

Pensavo. Ospitando una nuova parte di me che era scritto venisse al mondo. Pensavo, ma in realtà avevo già scelto lei per me. Lei doveva nascere.

Credo che a 25 anni presi una tra le decisioni più coraggiose di tutta la mia vita: lasciai un lavoro a tempo indeterminato, full time e molto ben remunerato, per tornare a studiare.
Ci sono due parole che descrivono perfettamente questo genere di comportamento: assoluta incoscienza. 

A distanza di quindici anni riesco ancora a sentire molto chiaramente la terra tremare sotto i miei piedi.
A settembre 2002 diedi le dimissioni.

Il mese dopo ero nuovamente tra i banchi di scuola: iscritta al corso di Art Direction - Comunicazione pubblicitaria presso lo IED di Milano. Tra quelle fila, nei tre anni successivi, la mia vita e lo sguardo che imparai a posare sul mondo, cambiarono radicalmente. Tra quei seggi, affrontai alcune tra le mie paure più grandi: il non essere all’altezza delle aspettative, il non essere brava abbastanza, il non avere buoni voti, il non essere abbastanza creativa.

La paura mi ha sempre accompagnata ovunque: siamo amiche molto intime, e quella maledetta sa perfettamente dove puntare il suo dito adunco ed avvizzito ed il suo sguardo saccente. 

Mi sbagliavo ancora: i miei voti furono altissimi, la mia mente si rivelò come una tra le più creative, nel corso degli studi vinsi diversi concorsi e mi laureai con la lode. Non sarebbe potuta andare meglio di così: e soltanto oggi riesco a vedere la struggente bellezza di quel sogno e della mia dedizione per realizzarlo. 

Credo che nella vita ci siano delle chiavi di volta: una di queste fu Manuel quando, con una frase ed uno sguardo, innescò una bomba ad orologeria. Parole ed immagini: esattamente ciò che poi la mia vita sarebbe diventata.
Talvolta ho la netta sensazione che le persone siano dei messaggeri.
Mi sono spesso chiesta se quella frase fu una benedizione o una maledizione: onestamente non l’ho ancora capito.
So soltanto che quando ripenso a quella lezione, mi sorride anche il culo. Nonostante le molteplici asperità del mio cammino.

Il 2002 fu un anno magico: non so esattamente quali confluenze astrali entrarono in gioco.
Chiusi una parte di vita per iniziarne un’altra. 
Certo è che da lì non fu più possibile tornare indietro.

XXX
MAdd ❤